Memorie del Cavaliere Gustavo di Orsara camerario dell'Imperatore Federico II

Terzogenito figlio del Barone di Orsara, diretto discendente della nobile stirpe dei Wilbrand di Oldenburg, il cui capostipite venne investito Cavaliere ed infeudato da Enrico VI, Imperatore del Sacro Romano Impero. Ebbi i natali nel castello che dalla cima della collina domina l’infinita pianura del Tavoliere delle Puglie, granaio dell’augusta Roma. Sicuramente in chi leggerà questo mio rotolo di pergamena, nascerà spontaneo il desiderio di visitare il sito su cui esso sorgeva. Ma certamente a causa della lontananza del tempo, di quel maestoso castello, vedrebbe solo dei ruderi semi diroccati, pur tuttavia, speranzoso della bontà della costruzione che i mastri carpentieri della mia epoca ebbero ad operare, malgrado i secoli trascorsi, sono certo che si eleverà ancora nella sua possente fattezza, la torre d’angolo a me tanto cara, ove tra la gioia dei miei amati genitori, ebbi ad emettere i primi vagiti da neonato.

Sono convinto che quella torre si troverà ancora in discreto stato di conservazione.

Il pesante arco che sovrasta l’ingresso si sarà sicuramente piegato al centro sotto il peso dei secoli ed i grigi blocchi di pietra, coperti da licheni saranno tenuti assieme da trefoli d’edera, come se questa li avesse stretti in un abbraccio materno per proteggerli contro la pioggia e le altre intemperie.

Dall’ingresso una scala di pietra a chiocciola sale verso l’alto, passando per due pianerottoli e terminando al terzo. I gradini avranno perduto la loro forma e si saranno incavati dal passo di tante generazioni che dopo la mia si saranno succedute.

La vita è passata per quelle scale a chiocciola scorrendo come l’acqua e comportandosi come questa, lasciando dietro di se i caratteristici incavi levigati.

I miei antenati ed i miei discendenti, per centinaia d’anni, li avranno e li continueranno a percorrere.

Quanta piena e forte sarà stata la marea di uomini che vi sarà passata.

E che cosa rimarrà di quel potere, di quella vanagloria, di quelle sanguinose contese, di quelle ardenti energie, se non pochi graffi su di una pietra tombale, o forse solo un pugno di polvere in una bara a pezzi?

Ma resisteranno ancora quelle silenziose scale ed il vecchio muro grigio, con stemmi interzati in sbarra e croci di Sant’Andrea ed altri emblemi araldici che saranno ancora distinguibili sulla sua superficie, simili ad ombre grottesche proiettate indietro nei tempi andati del passato?

Tra le mura di quel maniero, trascorsi gli anni della mia fanciullezza, ed al pari di una spugna avida del suo elemento primordiale, ebbi ad assorbire il linguaggio crudo e scurrile degli uomini d’armi che formavano la guarnigione, il mieloso cinguettio delle ancelle ed il quotidiano e persistente indottrinamento nelle arti letterarie della mia diletta madre.

Giunto all’età di quattordici anni, sostenuto dalla stessa che ne celebrava le mie doti, venni destinato dal mio nobile padre alle arti liberali anziché alla milizia.

Venne per me scelto uno “Studium” di Bologna ove si occupavano solo dell’insegnamento del Diritto. Sul far dell’alba di una mite giornata dei primi di settembre dell’anno di Nostro Signore 1221, con un compagno, anche lui figlio cadetto di un Cavaliere, cavalcando due robusti e resistenti cavalli, avendo al seguito due muletti carichi dei nostri bagagli, partii alla volta di quella Università con nella mente, l’espresso volere del mio rispettabile genitore che era quello di studiare, per far poi bella figura alla Corte di Federico, alla quale ero stato destinato e dove sarei certamente divenuto un’eminente camerario.

Con il mio compagno dell’interminabile viaggio, percorsi centinaia e centinaia di miglia per raggiungere infine la città di Bologna.

Quando fummo giunti, assieme ad Ulderigo, questo era il nome del mio compagno, ci adoperammo per trovare una camera.

Ed a forza di girare ed a caro prezzo, riuscimmo ad ottenere in fitto, un locale abbastanza spazioso, ammobiliato con un tavolo, degli scaffali per i libri ed un baule.

 

Vi era un letto alto con un sacco pieno di piume di oca ed un altro basso con un piumino di piume di struzzo che di giorno veniva nascosto sotto quello alto.

Dopo aver sistemato le nostre cose ed assicurato un buon stallaggio ai nostri quadrupedi, l’indomani mattino ci recammo presso l’Alma Mater Studiorum, un centro di studi giuridici sorto nel 1088, ove venimmo accolti da altri compagni di studio e dai maestri.

Le lezioni si svolgevano in un vasto locale dal pavimento ricoperto da paglia, sulla quale noi allievi sedevamo nel corso delle lezioni.

Nel tempo libero, in compagnia di Ulderico, ebbi modo di visitare la città che trovai ricca di belle chiese, dal cielo terso e sereno, in cui si respirava una buona aria e con degli abitanti buoni e cortesi.

Nel corso degli anni che ebbi a soggiornarvi, presi parte alle dispute che quotidianamente si svolgevano tra noi studenti e nelle dispute imparai a porre obiezioni ed a passare alla determinazione e cioè alla conclusione finale del quesito.

Nello studium imparai molto dai maestri, ma ancor di più dai compagni, specialmente da quelli più anziani, attraverso il racconto delle loro esperienze di vita e di studio. Con la frequentazione delle lezioni ebbi modo di leggere molti libri che mi diedero la conoscenza.

Così trascorsero l’un dopo l’altro i lunghi quattro anni e quando finalmente ebbi terminati gli studi, feci ritorno nel castello dei miei avi.

Erano i primi giorni del mese di giugno dell’anno di Grazia 1225.

Mio padre appena mi rivide, manifestò il suo gaudio abbracciandomi e condottomi negli alloggi di mia madre, venni da Ella colmato di baci e carezze.

Accucciato a lungo ai suoi piedi, le raccontai episodi della mia vita trascorsa lontano. Avevo modo di notare sul suo tanto da me amato viso, segni evidenti di ammirazione, man mano che il mio raccontare proseguiva e quando alzatomi ebbi a star ritto dinanzi a lei, ricordo, ebbe a complimentarsi dello sviluppo che il mio fisico, in quei quattro anni di lontananza, aveva subito. Ero a suo parere ormai divenuto quello che si suole dire un bel cavaliere.

Ma fu proprio quella notte che ebbi un sogno premonitore che ebbe a legarmi in maniera di assoluta fedeltà al mio Signore Federico II di Svevia.

Ritiratomi nella mia stanza, affaticato ma allo stesso tempo ebbro della gioia accumulata nell’arco della giornata trascorsa, non appena disteso sul letto, piombai in un sonno febbrile e tormentoso. Grottesche immagini dagli incredibili colori presero a turbinare nella mia fantasia, in un assurdo avvicendarsi di luoghi e di persone.

Una forma nebulosa si interpose tra i miei occhi e lo scenario sempre mutevole che si agitava nella mia immaginazione.

Da quella forma nebulosa gradualmente emergeva una figura che pian piano si consolidava, tanto da mostrare con chiarezza, l’immagine di un uomo di statura imponente, dai lineamenti fini e nobili, dagli occhi azzurri, vivi e brillanti, dal viso di bello aspetto incorniciato da folti capelli, da una barbetta e dai baffi biondi.

Indossava una lunga tunica di panno bianco, aveva sul capo una corona ed assiso su un trono, stringeva nella mano destra uno scettro ed in quella sinistra un globo sulla cui vetta vi era innestata la Croce.

Egli, vedendomi smarrito, incerto e titubante al suo cospetto, sorridente mi chiamò per nome dicendomi: “Gustavo, ora che hai appreso il sapere, ti aspetto a Foggia. Sarai al mio servizio e mi servirai fedelmente.”

A quel punto ricordo, per come avviene soventemente nei sogni, venne meno il sonno e mi svegliai in preda a grande ansia.

Era appena l’alba, quando entrai nella camera di mio padre che per sua abituale consuetudine, trovai già sveglio e pronto per affrontare il nuovo giorno.

 

 

 

Gli narrai del sogno e fu allora che egli, profondo conoscitore della vita sino ad allora vissuta dal suo Sovrano; suo fedelissimo Vassallo ed accanito sostenitore della legittimità del Suo Impero, volle raccontarmi quanto d’appresso.

L’Imperatore Federico II era nato a Jesi il 26 dicembre del 1194. Trascorse la sua prima infanzia a Palermo in un ambiente tra i più stimolanti, fra moschee, sinagoghe e chiese Cristiane, fraternizzando con il popolo. Rimase orfano del padre Enrico VI a tre anni e fatto prigioniero per la prima volta all’età di quattro, rimase in quello stesso anno orfano anche della madre Costanza. Per alcuni anni visse tra la prigione e l’affidamento alla tutela Papa di Innocenzo III, che fu suo tutore e reggente del regno di Sicilia alla morte di Costanza.

Alla età di sette anni, nuovamente imprigionato dal Capitano Karfen, uno dei tanti avverso ai Normanni, venne liberato da mio padre che lo tenne nascosto e protetto nel suo feudo. A quattordici, su suggerimento del Papa Innocenzo III venne incoronato Re di Sicilia. A quindici anni sposò Costanza d’Aragona di dieci anni più anziana, ma molto ricca e potente tanto da portargli cinquecento Cavalieri molto armati, onde consolidare il suo regno.

Le successive alterne vicende di lotta tra i Principi Germanici, per l’investitura, lo portarono a prepararsi per una fuga in Africa, onde sfuggire ancora ad un nuovo imprigionamento, quando gli giunse la notizia di essere uscito vincitore, ed eletto Imperatore.

Ad appena sedici anni, maturatosi in una vita tutt’altro che facile, esperto di latino, tedesco, francese, italiano ed arabo, grazie al mondo eterogeneo che componeva la Corte di Palermo e grazie ai buoni rapporti costanti con il Papa e con il resto d’Europa, oltre che con l’Oriente, accompagnato dal mio riverito genitore, partì alla volta di Francoforte dove venne eletto Imperatore di Germania e dei Romani ed il 22 Novembre del 1220, fu incoronato in San Pietro a Roma da Papa Onorio III.

In tale veste ed in quella di Re d’Italia, volle ottenere il predominio su tutto il territorio a Lui sottoposto. Alla pari di suo nonno, Federico Barbarossa, che usava frequentemente discendere dalla Germania sul territorio Italiano, per domare i Comuni ribelli, egli risaliva con il suo esercito l’Italia, proveniente dalla Sicilia onde reprimere lo spirito ribelle comunale che sempre di più si affermava nella parte settentrionale, riuscendo a vincere la Lega Lombarda a Cortenuova.

Rimasero eroiche le resistenze di Brescia e di Parma.

In tali circostanze venne sempre ostacolato dal papato che cercava in tutti i modi di fare naufragare i suoi ambiziosi disegni, ma egli seppe sempre giocare di astuzia e di forza, riuscendo spesso a sconfiggere le mire del Papa. Lanciò una violenta polemica contro la Chiesa, condannandone la struttura stessa, in quanto costituiva una Monarchia Pontificia, divenuta troppo politicante, troppo avida di profitti materiali.

Era uno assertore convinto della necessità che l’Impero, contro le pretese della Chiesa, dovesse essere accentrato nella mani di un solo Sovrano.

Dopo avermi edotto della storia e del valore di Federico II, in cui mio padre trovava la ragione della sua fedeltà, mi informava che da lì a tre giorni saremmo partiti alla volta di Foggia, dove Federico, stava trascorrendo la stagione che egli dedicava alla caccia. Trascorreva il suo tempo, alloggiato nel Palazzo Imperiale, i cui lavori erano stati terminati da appena un anno.

Era una bella mattina assolata, con al seguito una buona scorta di cavalieri, scudieri e paggi, su dei buoni cavalli, prendemmo la via del vecchio tratturo che attraversa un buon tratto di foresta, per poi ricongiungersi al tratto di strada maestra che si spinge verso ovest in direzione di Foggia. Spirava un leggero vento da settentrione colmo del profumo dei boschi e volgendomi per aspirarlo con voluttà, sentivo come se una nuova vita mi serpeggiasse nel sangue, rafforzandomi le membra.

Così felice, affiancato con il destriero a quello del mio nobile genitore percorrevo la strada.

Sul far del pomeriggio giungemmo sotto le mura di Foggia ed entrammo nella città dalla porta Daunia, dopo aver dato conto di noi agli armigeri di guardia. Avevamo appena iniziato a                 procedere per la via principale, quando incrociammo il Barone di Satriano che con il suo seguito si recava a corte per rendere il suo omaggio a Federico.

Una fila di botteghe si stendeva da ambo i lati della strada sino ad una piccola altura sul cui colle si ergeva il palazzo imperiale.

Dalla forma quadrangolare, circondato da un ampio fossato e dall' ingresso chiuso da un ampio portale, con il ponte levatoio abbassato, era custodito da armigeri musulmani interamente coperti da armature a maglie di acciaio, muniti di lunghe lance e da enormi scimitarre.

La nostra entrata nel castello venne salutata dall’ossequioso omaggio essenzialmente rivolto al mio genitore, da parte del capitano delle guardie, suo antico compagno d’armi.

Smontati che fummo ed affidate le nostre cavalcature agli stallieri, dopo esserci ripuliti, preceduti dal capitano delle guardie, venimmo accompagnati nell’ampio salone della reggia, posto al secondo piano della torre di centro che costituiva il baluardo del castello.

Tra i molteplici alti dignitari, uomini di scienza, militari e religiosi che lo circondavano, mi apparve l’Imperatore Federico di Hohenstaufen, in tutta la sua splendida magnificenza. Aveva la stessa immagine che avevo visto nel sogno.

L’incontro con il mio genitore, che venne meno alle regole di corte, fu davvero affettuoso, entrambi si tennero stretti in un abbraccio che a lungo si dilungò.

Venni presentato e, nel piegare le ginocchia in segno di omaggio e sudditanza, notai il suo maestoso viso atteggiarsi in un sorriso che già mi era apparso e ne rimasi talmente appagato e felice che scomparve in me quel misto senso di panico e di meraviglia che inizialmente al suo primo vedere aveva invaso il mio essere.

Dietro sua esplicita richiesta, parlai dei miei studi condotti nello studium di Bologna e dal suo acutissimo arguire, venni colpito del suo immenso sapere.

Trascorsero alcuni giorni, poi il mio amato genitore lasciò la corte per fare rientro nel suo feudo, mentre io rimasi, venendo affidato alle cure ed alla dottrina del suo molto sapiente segretario Pier delle Vigne.

Appresi così fatti ed episodi della vita pubblica e privata, riguardanti il passato ed il presente del mio Signore. Conobbi uomini illustri del suo seguito. Fatti ed uomini talmente importanti per la storia delle umane genti, che ho ritenuto necessario riportare nelle righe di questa mia pergamena. Seppi della mancata attuazione del progetto di Crociata che egli aveva fatto approvare dalla Dieta di Norimberga nell’ottobre del 1219; delle lamentele del Papa Onofrio III, che con la lettera del novembre dello stesso anno, rimproverava Federico, di rimandare troppo a lungo la partenza per l’Oriente; di come questi, preoccupato per la propria incoronazione Imperiale e di quella del figlio Enrico, aveva ritardato la partenza dei primi contingenti del suo esercito, che si erano imbarcati in Puglia solo nell’aprile del 1221, seguiti da altri nel giugno successivo. Il contingente, imbarcato sulla flotta Imperiale, comandata dall’Ammiraglio Enrico di Malta, dal Cancelliere del Regno di Sicilia Gualtiero di Pelear e dal Cancelliere Imperiale, una volta giunto in Oriente, si era stanziato nei pressi di Damietta, una delle tre principali piazzeforti d’Egitto, astenendosi dal partecipare ai combattimenti in corso, trincerandosi dietro gli ordini dell’Imperatore.

Ciò avveniva in quanto il Legato del Papa, Pelagio, Cardinale e Vescovo di Albano, a seguito della occupazione Crociata di Damietta, guidata da Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme, aveva assunto la direzione delle operazioni di guerra. Venuto in contrasto con Giovanni, che sosteneva la necessità della partecipazione nella lotta dell’Armata Imperiale, affermava il suo diritto di voler proseguire da solo nella conquista dell’Egitto, con una Crociata interamente diretta dal Papato ed integralmente a suo beneficio, ciò allo scopo di privare Federico dei frutti della vittoria.

Tale principio di condotta produsse però degli effetti negativi, dato che vi fu la capitolazione Cristiana di Baramun, che a sua volta produsse la ritirata dei Cristiani e quanto più stava a cuore all’intera Cristianità, l’azzeramento del compromesso che prevedeva lo scambio di Damietta con la città Santa di Gerusalemme, arrecando così, un enorme sollievo all’esercito Musulmano guidato da Al –Khamil, Sultano d’Egitto.

A conclusione di questi avvenimenti l’intero Occidente, che alla notizia della conquista di Damietta, aveva vissuto un momento di entusiasmo, con l’avvicendarsi dei contingenti che partivano alla volta di detta località, quando apprese della ritirata dei Crociati, manifestò la propria delusione con violenti attacchi alla politica Pontificia ed alle sue continue richieste di denaro, per cui costrinsero Papa Onorio III ai preparativi di una nuova Crociata, la sesta.

Volendo porre a capo di essa l’Imperatore Federico, aveva convocato un vero e proprio Consiglio di guerra di cui facevano parte Giovanni di Brienne, ed i Gran Maestri degli Ordini militari. In seno al medesimo e su ispirazione dello stesso Papa, si progettò di fare sposare l’Imperatore con la figlia che Giovanni di Brienne aveva avuto da Maria di Monferrato, la tredicenne Jolanda, nota pure col nome di Isabella, erede della corona di Gerusalemme, una volta compiuti i quattordici anni d’età. E dato che la promessa sposa era cugina di Federico per parte di madre, il Papa si affrettò a concedere le dispense necessarie.

Ermanno di Scalza, principale negoziatore del progetto, assicurò Giovanni di Brienne che sarebbe rimasto re di Gerusalemme, vita natural durante e si convenne altresì che, attenendosi alla tradizione, Federico si sarebbe fatto incoronare in Oriente.

Per affrettare i tempi, dato che la Principessa Jolanda si trovava in terra d’Oriente, il matrimonio, si sarebbe dovuto celebrare per procura a Tiro.

In vista del suo matrimonio Federico aveva ottenuto un nuovo rinvio e con il Trattato di San Germano, al quale ero presente, avvenuto il 25 luglio dell’anno 1225 della Redenzione,   prometteva di partire per l’Oriente il 15 agosto 1227, con mille cavalieri e servirvi per due anni, pena la scomunica.

Non occorreva essere particolarmente perspicaci per capire che quanto mi era stato illustrato e quanto avevo toccato con mano, dovesse servire solo ed esclusivamente per soddisfare i bisogni del mio Signore, per cui mi promisi di essere sempre di più diligente nell’eseguire i suoi ordini.

Intanto il tempo passava, le giornate scorrevano veloci, con la loro alba chiara e bella e le sere fresche e limpide, mentre l’autunno scivolava via rapidamente, con le ultime foglie che cadevano dagli alberi. Un pomeriggio dei primi giorni della prima decade del mese di ottobre, mentre le prime ombre della sera iniziavano a calare, ricevetti l’ordine di recarmi nella città di Tiro, per rappresentare l’Imperatore nel celebrando matrimonio con Jolanda (Isabella) e di ricondurla presso di lui, in Italia, dove Egli, avrebbe rinnovato la celebrazione nella città di Brindisi. Tre giorni dopo, era una mattina limpida non molto calda e la terra aveva gli odori vivi e riposanti, quando avendo al seguito un numeroso convoglio, composto da un centinaio di muli con i relativi mulattieri, carichi di preziosi doni destinati alla sposa ed una buona scorta di cavalieri, armigeri ed arcieri che si muoveva a difesa tutto intorno al convoglio, lasciai la città di Foggia, diretto a quella di Brindisi, dove nel porto mi attendeva una flotta di ben 14 galee, al comando del Conte Enrico di Malta. Fu una traversata quieta e tranquilla, con il mare calmo e nessun fortunale all’orizzonte per tutti gli otto giorni di mare occorsi per raggiungere le coste della Siria.

Il giorno successivo allo sbarco sulla piana di Tiro, nell’austero salone delle armi del castello, alla presenza di Ermanno di Salsa, gran Maestro dei Cavalieri Teutonici, che fu il principale negoziatore del progetto, di Giovanni di Montfort, Sire della piazzaforte di Tiro, dell’Ammiraglio Conte Enrico di Malta, di Giovanni di Brienne, padre della sposa, da chi vi narra, in rappresentanza dell’Illustrissimo mio Signore Imperatore del Sacro Romano Impero Federico II della Casata degli Hohenstaufen, da Jolanda (Isabella) di Brienne, promessa sposa e alla presenza del Notar         Goffredo da Tiro, venne registrato il contratto di matrimonio che avveniva per procura tra il mio Signore e Jolanda di Brienne, che venne celebrato il dì successivo nella chiesa di Santa Croce di Acri, dal legato Pontificio Giacomo Arcivescovo Eletto di Capua.

Ella, la mia Imperatrice, come ebbe ad apparirmi mi sconvolse.

Era una piccola e grassottella adolescente, dal fisico incipiente e dalle membra sgraziate. La pelle olivastra, i lineamenti grossolani, la fronte bassa, gli occhi di un color celeste slavato ed i capelli di un biondo pallido intrecciati con fiori rossi ed ornati di perle bianche.

Indossava un magnifico vestito di seta bianca, tutto ricami d’ oro, con un lungo strascico, che mal le si addiceva, data la sua bassa e sgraziata statura. Mi posi a riflettere ed in cuor mio mi chiedevo come fosse stato possibile, sia pure per ragioni diplomatiche, costringere il mio possente ed aitante Sovrano, ad accettare un simile connubio.

E pur lo era stato, in quanto il matrimonio, sia pur celebrato per procura, era reale ed indissolubile.

Ne segui un sontuoso pranzo, al quale parteciparono numerosi elevati feudatari del regno di Gerusalemme e i rispettivi gran Maestri degli Ordini militari. Durante il banchetto, centinaia di valletti recarono alla sposa i doni preziosi che il mio Signore aveva fatto stipare nelle stive delle 14 galee.

Fu una giornata intera dedicata al susseguirsi di doni.

Ai prodotti pregiati della sua amata terra di Puglia, seguì la donazione di vasi e calici che rivelavano la loro materia preziosa, tra il giallo dell’oro, il biancore immacolato degli avori e la trasparenza del cristallo, vidi rilucere gemme di ogni colore e dimensione, e riconobbi il giacinto, il topazio, il rubino, lo zaffiro, lo smeraldo, il crisolito, l’onice, il carbonchio, il diaspro e l’agata.

Fu un succedersi continuo di ori e di pietre preziose che erano il segno della loro grandezza e di quella del mio Signore.

Ma cosa più strana a dirsi, fu proprio in quella occasione che ebbi una rivelazione che colpì il mio intendimento.

Era la dolcezza d’animo, la sensibilità, l’acume e le maniere gentili e cortesi di quella acerba fanciulla, sul cui fisico, madre Natura, aveva completamente ignorato di porre alcun barlume di bellezza.

Ciò lo dedussi dai continui colloqui e dai cortesi modi attraverso i quali Ella mi proponeva, sia nel corso del lungo e cerimonioso banchetto, sia successivamente, tutti vertenti sull’aspetto, sul carattere, sulle abitudini del mio Signore. Sui regni e sulle condizioni di vita delle popolazioni sui quali Egli imperava.

Nei giorni successivi venne fissata la partenza per Brindisi.

Ne seguirono i preparativi che vennero accelerati, su esplicita richiesta del Conte di Malta, preoccupato di un possibile mutamento delle condizioni atmosferiche e del mare.

E venne dunque il giorno dell’imbarco e quando giunse pallido il mattino, si manifestò una giornata grigia con un pallido sole che sorgeva da dietro le colline, irradiate dalla sua luce obliqua filtrati da una fine nebbiolina d’argento.

La galea Imperiale, sulla quale era imbarcata Jolanda, il di lei padre ed Ermanno di Salsa, Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici, al cui Ordine, Federico aveva donato nel 1115 la “Domus Margariti” di Brindisi, era scortata dalle altre tredici, e spinta da una forte brezza di poppa, lasciò la rada di Tiro, diretta verso il porto di Brindisi, dove Federico attendeva la sua sposa.

La durata della traversata, anche se venne moderatamente contrastata da brevi e non violenti fortunali, si prolungò per circa dieci giorni, finché in un mattino pallido come quello dell’imbarco, all'orizzonte vidi apparire, in una luce pallida e senza ombre, il porto di arrivo con il suo ingresso simile ai rami delle corna di cervo.

Ora miei diletti lettori, sempre se avrò il privilegio di avervi miei cultori, prima di approdare sulla terra ferma, consentitemi di soffermarmi su questa magnifica Università.

Di origine antichissima, posta sulle sponde del Mare Adriatico, secondo la leggenda, venne fondata da Brento, figlio di Ercole.

La sua popolazione fu molto devota al dio Nettuno, dio del mare. Nel periodo repubblicano, le monete che qui si coniavano, presentavano sul recto il volto barbuto di Nettuno e sul verso la figura di un delfino cavalcato da un personaggio ignudo con sotto le lettere BRUN.

La sua importanza, già al tempo dell’antica Roma, la doveva tutta al suo mare per i traffici commerciali che effettuava con il vicino Oriente.

Per tutto il periodo romano, poiché la sua dislocazione è posta al termine della Via Appia, fu la principale località marittima della Puglia, essendo il principale porto di comunicazione con i Balcani. Per andare in Oriente ci si doveva sin d’allora imbarcare a Brindisi da cui si raggiungeva Durazzo, per proseguire lungo la Via Egnatia che conduce a Tessalonica , sino a Bisanzio. Con la caduta dell’Impero Romano, il suo ruolo decadde e venne svolto dal porto di Otranto.

Nell’838 venne quasi annientata dai Saraceni venendo ridotta ad un villaggio e solo nell’anno Mille iniziò a riprendere il suo vecchio ruolo. Successivamente durante l’invasione Bizantina del 1155-56, nel corso della quale la popolazione di Brindisi, si ribellò a Guglielmo I°, re Normanno di Sicilia- Napoli, favorendone l’invasione, questi, giunto sul luogo con la sua flotta ed il suo esercito la occupò e constatato che il castello difeso dai Normanni, non era ancora caduto, venuto a combattimento con gli assedianti, ne riportò una schiacciante vittoria, tanto che in un suo Atto affermò che “ questa città è stata saccheggiata dal nostro fortunato esercito come una caverna di briganti ed un ammasso di Infedeli precisando che aveva abbandonato alcuni (dei suoi cittadini) alla spada cui non potevano scampare, altri alla corda, molti aveva dato in pasto ai pesci ed una quantità innumerevole condannata alla prigione lasciando la direzione della Contea al Sire di Conversano”.

Dopo di allora, la città continuò a crescere d’importanza, tanto che nel 1198, Enrico VI, padre del mio Imperatore e Signore, nel nuovo laboratorio della città, si mise a battere monete d’argento in sostituzione dei denari francesi; nel 1199, concludeva un vero e proprio trattato con Venezia promettendo di non accogliere nel suo porto Corsari Genovesi o Pisani. Seguendo la rete Ecclesiastica, insediata dai Normanni, l’Arcivescovo di Brindisi, aveva sotto la sua direzione anche quella di Oria. Ma fu sotto il regno del mio Signore che la città assunse l’apice della sua vera importanza. Divenendo una vera e propria capitale, perché oltre al nuovo ed imponente castello ed alle mura poderose, insediò un’importante zecca lasciatagli dal padre, che aveva come sede la sontuosa casa dell'Ammiraglio Margarito, fatto accecare da Enrico VI a Treviri.

Nella “Domus Margariti”, dimorano i Cavalieri Teutonici, il cui Gran Maestro Ermanno di Salsa, al seguito dell’Imperatrice Jolanda è in procinto di sbarcare a Brindisi con chi scrive queste memorie.

Una volta a terra, scorsi un grosso drappello di cavalieri con a capo un Messo Imperiale che ci condusse al castello prospiciente il mare posto su una piccola altura artificiale, distante circa un mezzo miglio. Lungo il tragitto, ben poca gente appariva sulla strada. Nessun grido di esultanza si levava e tra l’indifferente silenzio percorremmo la via. In seguito appresi che quella accoglienza così silente e mesta, era dovuta al fatto che i Brindisini, già molto affezionati ai Normanni, non soffrivano Federico e gli Svevi, perché il padre del mio Signore aveva riservato al loro nobile concittadino Margarito, Grande Ammiraglio, fedelissimo ai Normanni, un trattamento crudele. Aveva inoltre imposto eccessivi obblighi fiscali, numerose servitù e prepotenze alle quali si erano malvolentieri assoggettati.

Anche nello sfarzoso splendore della sua celebrazione, il matrimonio che venne celebrato quel mattino del 9 novembre dell’anno di Grazia 1225, da Sua Eccellenza l’Arcivescovo Taddeo, avvenne in un clima di mestizia e di rassegnazione, privo di gioia e di esultanza.

Sontuosi abiti ricoprivano le membra del numeroso e variopinto corteo nuziale, che procedeva lentamente per la via avendo quale meta la magnifica cattedrale del Duomo.

Cavalieri su agili ed addobbati destrieri lo precedevano, mentre la guardia del Corpo dell’Imperatore, composta unicamente da Saraceni, sorvegliava le vie e ne chiudeva le entrate.

Poca gente del popolo ve ne era assiepata, ma quando fu giunta nel piazzale antistante la Chiesa l’intero popolo ne riempiva lo spazio.

Scarse e sporadiche furono le acclamazioni di giubilo che vennero rivolte agli Sposi.

Il più dei presenti, osservava in silenzio il procedere del corteo e sembrava che fosse lì, per altro motivo, quasi in trepidante attesa.

Gli sposi apparivano l’un dall’altro completamente distanti, come se ognuno vivesse per proprio conto e mentre le loro membra ed i loro gesti in perfetta sincronia si susseguivano nel corso della cerimonia, i loro pensieri che venivano manifestati dalle espressioni del viso, sembravano fugare agli occhi altrui i reali intendimenti.

Al termine della cerimonia, mentre una immensa folla riempiva la cattedrale, le navate ne erano ricolme e sul piazzale antistante altra moltitudine era in attesa, improvvisamente un gruppo di cavalieri Veneziani preceduti da due giovani sacerdoti di rito Ortodosso- Bizantino, si fece largo tra la folla.

Avanzano, portando seco una urna di legno rivestita in oro zecchino ed avvolte in uno sciamito(tela di seta rossa dorata) che consegnarono nelle mani dell’Arcivescovo.

E dalla viva voce dell’alto Prelato, si apprese che l’urna conteneva i resti mortali di San Teodoro, Protettore della città e che su incarico dello Sposo erano stati condotti da Euchaita (Turchia), per farne dono alla Sposa, quale regalo di nozze.

A tale annuncio si levò dalla folla un immenso boato di esultanza e di ringraziamento facendo intuire che quei fedeli, grazie a quel Santo dono, che rimarrà ad eterna memoria di fede di devozione, erano divenuti dell’Imperatore, nuovi adepti e fedeli sudditi.

Dopo una così splendida manifestazione di devozione popolare che fu di enorme conforto per la coppia imperiale e per il seguito, si riformò il corteo per fare ritorno al castello. Questa volta tra l’intero popolo esultante. Ne seguii un dovizioso convivio, al quale parteciparono tutti i poveri della comunità, serviti com'è usanza dalle dame di corte dell’Imperatrice, nel vasto piazzale dell’interno del castello, adibito per l’occasione alla bisogna.

Perché obbligato dal dovere morale che debbo al mio Signore, voglio coprire di un manto pietoso ciò che avvenne quella prima notte nella camera degli augusti sposi, anche se quanto ebbe ad accadere, rivive nitido nella mia mente e lascio solo che la mia penna d’oca continui a trascrivere tra le righe di questa mia pergamena, che fra le dame di compagnia della Imperatrice, vi era una fanciulla bellissima, dal sinuoso e procace aspetto di nome Aines, sua cugina che sin dal suo arrivo, con le sue maniere provocanti ed accattivanti, aveva destato un vivo interesse nel mio Signore, che in diversi modi la circuiva ed apertamente le si manifestava.

Cosa avvenne tra di loro, lo so, ma non intendo dirlo.

Aggiungo solo che l’indomani mattina tra il mio Signore ed il padre della sposa si verificò un violento alterco che lasciò muti ed interdetti gli astanti. Di lì a pochi giorni, l’intera corte partì alla volta della reggia di Foggia, dove Federico si fece incoronare Re di Gerusalemme, adottando un nuovo sigillo sul quale compariva il nuovo titolo.

Fece obbligo ai Baroni che erano al seguito di Jolanda, di rendergli omaggio e fece sapere al suocero, che intanto era partito per la Sicilia, che ormai aveva perso il suo diritto alla corona.

Vane furono le proteste di quest’ultimo, forte dei legami esistenti tra i Brienne e l’antica dinastia Normanna della Sicilia, ma fu costretto a lasciare l’isola e fare ritorno in Terrasanta.

Trascorsero i giorni, le settimane ed i mesi, ed il tempo passò via velocemente. Ero tornato alle abitudini dei primi tempi, costretto a vivere la vita che ogni buon ministeriale quotidianamente svolge nell’eseguire gli incarichi che il mio Signore mi ordinava.

Gli fui compagno di strada per la terra di Puglia ed in particolare nella Capitanata, per la quale nutriva una grande predilezione, tanto da meritarsi per questo l’appellativo di “figlio della Puglia”, soffermandosi in quei luoghi ed in quelle università, ove egli unendo la necessità di difesa all’amore per l’arte, fece costruire una rete di castelli e di chiese.

Fece disboscare vaste zone del tavoliere ed aprì nuove strade per portare i prodotti della terra verso le città costiere.

Nell’aprile del 1226, feci ritorno in Brindisi, dove Federico, approfittando del gran numero di soldati e di pellegrini in ozio, lì convenuti per partecipare alla VI Crociata, li utilizzò per far costruire un castello, molto vicino a quello antico, che si trovava in pessime condizioni, con un doppio accesso dalla parte di terra, a breve distanza dall’anfiteatro romano e da un tempio pagano, che vennero demoliti, onde ricavarne il materiale necessario alla costruzione, dalla parte del mare. Là dove termina l’antica via Appia, fece costruire delle darsene che consentivano l’attracco contemporaneo di almeno venti galee per rifornire la guarnigione nel caso in cui l’approvvigionamento venisse impedito da terra.

Lo fece costruire per sua dimora, facendolo divenire pure sede di uffici, caserma, prigione ed arsenale.

Ma sul finire dei lavori, si era verso la metà del mese di marzo dell’anno 1227, uno straordinario fenomeno spaventò la città.

Le giornate erano già calde e la primavera era in forte anticipo; all'alba però, la temperatura ancora bassa e l’aria umida che saliva dal mare non era certo un toccasana per i molti che soffrivano di reumatismi. In quel grigio mattino senza sole, dall’oriente, una grossa nuvola di un color rosso purpureo avanzò lentamente nel cielo.

Man mano che procedeva, con il suo aspetto sinistro e carico di calamità, le foglie degli alberi si ripiegavano come avvizzite e gli uccelli cessavano di cinguettare.

Nella buia oscurità che si era fatta nel paese, gli uomini se ne stavano a guardare la paurosa nuvola, affollarono le chiese, dove tremanti donne venivano confessate da preti altrettanto tremanti.

Fuori gli uccelli non volavano più e né si udiva nessuno dei suoni familiari della natura, tutto era immobile, salvo la grande nuvola che continuava a vagare lentamente sull’orizzonte divenuto nero.

Cominciò a piovere e piovve tutta la giornata e continuò a piovere per tutto il mese. Non era una pioggia a scrosci, ma una pioggia fredda, uniforme ed incessante che stancava indicibilmente.

Ogni mattina la gente guardava in aria per cercare uno spiraglio di sereno, ma poco a poco si stancò di guardare. Il grano ed il fieno macerati ed anneriti, imputridivano nei campi.

Gli animali domestici morivano e si temeva che sopraggiungesse la carestia.

Finalmente la pioggia cessò ed un pallido sole brillò sulla terra divenuta tutta una palude. Le foglie macere evaporavano e morivano sotto la nebbia che veniva dal mare.

I campi erano disseminati da mostruosi funghi, rossi marroni e neri.

Anche i muri delle case, erano ricoperte di muffa e di licheni. Poi da tutta quella corruzione,venne fuori la morte.

Morivano uomini, donne e bambini. Tutti inspiravano quell’aria mefitica e tutti morivano nello stesso modo. Poi finalmente giunse il buon tempo con il suo bel sole, apportatore di salute e la terra si asciugò e apparve l’alba dei tempi nuovi che solo metà degli uomini poté vedere.

In simile contesto, Federico tenendo in parte fede a quanto sottoscritto dal trattato di San Germano del 1225 e per timore della scomunica che gli era stata minacciata, il 15 agosto dell’anno del Signore 1227, fece prendere il mare alla sua flotta, imbarcando una parte considerevole dell'   esercito alla guida del Duca di Limburgo, Enrico, che avrebbe assunto la direzione della Crociata.

Nei giorni successivi e precisamente il 6 settembre Federico con il suo seguito, s’imbarcò assieme al Patriarca di Gerusalemme Gerardo di Losanna.

Si era appena usciti dal porto, quando il mio Signore, accusando un forte malessere, fatta fermare la nave ammiraglia faceva ritorno a riva lasciando a bordo il Patriarca di Gerusalemme a proseguire da solo il viaggio verso il Levante.

Repentina ed immediata fu la reazione di Gregorio IX, succeduto al trono di Pietro. Non volle credere alla presunta malattia del mio Signore e lo scomunicò. Il conflitto si inasprì e Federico conoscendo molto bene quali erano le mire del Papa, che in effetti voleva di fatto rivendicare i diritti della Santa Romana Chiesa sul Regno di Sicilia, non manifestò alcun segno di ravvedimento e tanto meno di richiesta di perdono e solo l’anno successivo sulle prime ore dell’alba del 28 giugno nell’era di Nostro Signore del 1228, si imbarcò da Brindisi, avendo al seguito un ristretto numero di Cavalieri, circa cento. Prima di partire mi aveva fatto scrivere una sua richiesta indirizzata al Santo Padre, con la quale esigeva lo si sciogliesse dalla scomunica.

Pur non avendone ottenuta alcuna risposta, scomunicato, diede inizio alla Sesta Crociata.

Tale situazione creò gravi difficoltà di comando sui Cavalieri Templari e sugli Ospedalieri, che si unirono al suo esercito solo a condizione che gli ordini non venissero comunicati a suo nome. Inoltre, non avendo il Papa designato alcun Legato al seguito della Crociata, i poteri erano di spettanza del Patriarca di Gerusalemme, che era un personaggio molto attento a far rispettare i diritti del Papato. E poiché, Egli partiva, avendo la doppia personalità sovrana di Imperatore e di Re di Gerusalemme, si trovava nella paradossale situazione di un Re che aveva preso la Croce per venire in soccorso del suo regno. E poiché intendeva valersi di entrambi i diritti, una volta giunto a Cipro, governata da Giovanni d’Ibelin, per conto del giovane nipote, Enrico Re di Cipro, rifacendosi alle norme Imperiali che gli consentivano di esercitare la reggenza per conto degli eredi minori dei feudi ed incamerarne le multe, riuscì ad imporre la propria autorità sul regno di Cipro e rendere operanti i diritti dell’Impero. In questo modo trasse da Cipro le risorse per finanziare la spedizione e rafforzare con l’esercito del regno le proprie truppe.

Non riuscì ad ottenere l’omaggio di Bernardo IV, Principe di Antiochia e Conte di Tripoli. Questi infatti, per sfuggire al potere dell’Imperatore si finse pazzo e riuscì a raggiungere le sue terre senza dovergli obbedire.

Di lì raggiunse con il suo esercito la Terra Santa, potendo contare sull’appoggio incondizionato dei Cavalieri Teutonici e sull'amicizia che lo legava al Sultano d’Egitto al-Kamil, che permise a tutta la Cristianità, con il trattato di Giaffa, la restituzione di “Gerusalemme l’Esaltata”, della quale egli avrebbe avuto il diritto di fortificare, fatta eccezione della Moschea di al-Aqsa e del Duomo della Rocca, che rimanevano agli Islamici ,

Il Trattato, che Federico concluse con il Sultano il 28 febbraio 1229, che era stato negoziato nel più grande segreto, contemplava la proclamazione di una tregua della durata di dieci anni, cinque mesi e venti giorni (durata corrispondente, secondo il calendario musulmano a dieci anni del calendario giuliano); escludeva il Principato di Antiochia e la Contea di Tripoli, i domini dell’Ordine degli Ospedalieri e del Tempio di Krak dei Templari, a Castelbuono, a Tortosa ed a Margot, inoltre proibiva ai suoi sudditi di prestare loro aiuto in caso di conflitto con il Sultano. I pellegrini Cristiani, avrebbero potuto visitare il Tempio, a condizione che si fossero comportati con la massima devozione e discrezione.

Venivano restituite ai Cristiani, Nazareth e Betlemme, disponendo le località di un corridoio attraverso il quale raggiungere le terre franche. Un giudice Musulmano sarebbe rimasto a Gerusalemme per giudicare nelle cause dei suoi connazionali, nonché venivano riconosciute altre concessioni di minore importanza riguardanti il primo possesso dei territori fino ad allora contestati in regime di spartizione quali Sidone – Giaffa e Cesarea.

Si dovevano infine restituire i prigionieri di guerra.

In questa maniera il mio Signore, era riuscito pienamente nel suo intento, avendo raggiunto un doppio scopo: la riconquista di Gerusalemme ed il consolidamento della propria Autorità regale.

Alla sottoscrizione di tale trattato,entrò così nella città e si fece incoronare   nella Basilica del Santo Sepolcro.

Facemmo rientro in Patria, passando per Cipro, e nel maggio del 1230 Gregorio IX si riconciliava con Federico Il. Il Trattato di Giaffa, divenne per lui quello ottenuto dal “nostro caro figlio Federico”, grazie al quale “questa città era stata restituita, ad eccezione del Tempio del Signore” ed ora era “libera della sozzura” degli infedeli.

Nel 1231 emanò dal castello di Melfi le Constitutiones Melphitanae, destinate a regolare il diritto feudale e che furono le leggi più importanti del periodo in cui ebbi a vivere.

Continuai a servire il mio Signore sino al giorno della sua improvvisa morte, avvenuta per un attacco di dissenteria a Castel Fiorentino di Puglia il 13 dicembre del 1250.

Nel corso del suo continuo peregrinare nella terra di Puglia, costruì una rete di castelli per la difesa del territorio, fatta eccezione per quello di Castel del Monte, che non nacque per la difesa o lo svago, bensì fu il castello del Sapere Universale. Un Castello-Tempio. Quando venne costruito nell’ anno del Signore 1240, sulla cima di un colle circondato da un bosco di querce, Egli compose il seguente sublime sonetto, che per la gloria del mio Sovrano, riporto su questa mia umile pergamena, ad eterna memoria della sua grandezza di autore pregiatissimo.

 

CASTEL DEL MONTE

 

Da sempre abbiamo

amato la Puglia,

pupilla degli occhi nostri,

per le dorate albe,

i tramonti di fuoco,

i secolari ulivi,

le fresche brezze mattutine

e le incontaminate acque.

 

Su questa magica e generosa

terra,custode delle emozioni,

della passioni e dei pensieri

della nostra travagliata

esistenza,abbiamo fatto

costruire Castel del Monte,

che racchiude in se la

suprema conoscenza che

né il tempo e né l’uomo

riusciranno mai a distruggere.

 

Per raccontar lo Mondo,

non solo ebbi l’idea,

ma poi sul poggio arguto

lo costruì in barriera.

Sul mio fidel compagno

poggiai le sacre verba,

ma in nome di Colui

che solo è, il mio Signore,

torrioni della scienza,

non per pugnar il nemico

ma luce delle stelle

e della sora luna.

 

Il sole è il mio sigillo

e se sapere il vuole

e l’uom non possa pria,

prima del calar dell’astro  

la fede mi è compagna

nello cambiar lo fato,

l’ordine ho lanciato

per lo costrutto mio.

 

Federico II

 

Questo ed altro, è quanto che Egli tramandò a coloro che dopo di lui vennero su questa terra, quali viandanti sulla via, che solo il fato può condurre verso quella verità che è la conoscenza e la fede. Promulgò leggi eccellenti e rimase proverbiale il suo amore per la giustizia. Dopo la sua morte dall’Anonimo Italico così fu scritto: “Quando morì Federico, specialmente in Italia, ogni giustizia morì con lui, dopo di ché il freno alla Chiesa ed ai Tiranni fu così travolto, che come cavalli, ognuno si sbizzarrì e tutto calpestò secondo il proprio piacere”.

Ora che sono vecchio e stanco, trascorro il mio limitato tempo, in quella stanza del terzo piano della torre del mio castello d’Orsara, rinvangando il passato. Non sono più interessato al presente, alquanto buio e triste, ma che vola via come un gabbiano che d’ improvviso appare e subitamente scompare sulle onde del mare. Lascio a voi questi miei scritti, a perenne ricordo del mio Signore e Sovrano Federico II di Svevia.

 

Il presente racconto è stato tratto dal mio secondo volume di racconti e poesie dal titolo “Paradiso Perduto”, pubblicato il 02 gennaio 2010

 

Brindisi, 16 maggio 2011

 

Antonio Trono