Il brigantaggio politico - Storie di briganti - Carmine CROCCO
In un mio precedente racconto dal titolo “La rivolta dei fasci in Sicilia”, pubblicato nel mio terzo libro “ VERGOGNA”, narravo delle molte contraddizioni che il governo piemontese, evidenziò nell’Italia Meridionale Peninsulare, durante la realizzazione dello Stato Unitario Italiano.
Tra di esse, quella che ancora mi colpisce e mi angustia, per l’enorme quantità di sangue versato, fu quella del cosiddetto Brigantaggio Politico.
Tanto accadde, perché i Piemontesi, che assediavano il Meridione, si diedero ad agire come vere “bande di ventura”, saccheggiando case e chiese, alla ricerca di oggetti preziosi.
Venne soppressa la libertà di stampa e di pubbliche riunioni, anche la posta privata fu censurata. Fu una vera e feroce dittatura militare, per cui i cittadini che si ribellavano a tale banditesco comportamento, venivano arrestati ed incarcerati in luoghi oscuri e fetidi, abbandonati alla vera sporcizia di escrementi e topi con cui erano obbligati a convivere
Molti di quei poveri derelitti, ai quali venivano sequestrati i beni e derubati del denaro, spesso non conoscevano finanche di quali reati dovevano rispondere.
I prigionieri giunsero ad essere una moltitudine tale che il re di quell’Italia così maldestramente unificata, avviò delle trattative con il re del Portogallo, affinché gli affittasse un’isola nell’Atlantico, dove deportarli per lasciarli morire di inedia, ma grazie a Iddio, questa trattativa fallì e non se ne fece più nulla.
Lo spargimento di sangue nel Meridione fu tale che, al termine del 1862, in una relazione al Parlamento di Torino, furono forniti ai deputati i dati ufficiali relativi all’anno in chiusura sulla situazione dell’ex Regno di Napoli, nella quale si legge: “15.665 persone fucilate, 1740 imprigionate, 960 uccise in combattimenti, mentre gli scontri di una certa consistenza assommano a 574”.
Un vero bollettino di guerra, in cui si vedeva un esercito Nazionale di oltre 60 mila uomini ben addestrati, bene armati ed equipaggiati contro la guerriglia di numerose bande armate, composte da uomini e donne non addestrati, che si erano ribellati alla tirannia dell’assedio dell’esercito piemontese, capeggiate per lo più da ex sottufficiali e graduati dell’ex esercito regio di Napoli, male armati e peggio equipaggiati, quali Carmine Crocco, detto “Donatello”, Ninco Nanco, il sergente Romano di Gioia del Colle, Cosimo Mazzei di San Marzano, detto “ Pizzipicchio”, Rocco, Angelo Cristolla detto “ Picichillo”, Rocco Chirichigno, detto “Cuppulone”, Riccardo Colasuonno detto “Ciucciariello” ed altri che vennero combattuti aspramente ed uccisi e le loro misere spoglie esposte al ludibrio della gente.
Nella lotta al brigantaggio, l’esercito Piemontese, venne coadiuvato dalla Guardia Nazionale Mobile, appositamente istituita da Vittorio Emanuele II.
Dell’epoca rimane famosa la legge 15 agosto 1863 nr.1409, meglio conosciuta come Legge Pica, dal nome del suo proponente On. Giuseppe Pica dell’Aquila.
Della recrudescenza del Brigantaggio Politico che ebbe a svilupparsi nei primi anni dopo lo Stato Unitario nella quasi totalità dell’Italia Meridionale Peninsulare e di quegli uomini che ho dinanzi descritti, vorrò narrarvi le gesta, la vita e la morte che essi con determinazione furono costretti ad affrontare, consapevoli di essere nel giusto, combattendo la tirannia che lo Stato Sabauda simboleggiava.
Se è vero che nessuno di loro, fu il “ Che Guevara “ dell’epoca, sono certo, però, che in ognuno di loro vi era la naturale ed impellente necessità di ribellarsi allo strapotere delle truppe piemontesi, che non facevano altro che calpestare i naturali diritti umani di quella già misera popolazione, angustiata quale era, dalla povertà, dall’ingiustizia e dall’angherie del vecchio governo Borbonico e che al momento dell’assedio del nuovo regime, si vedevano ancora maggiormente oppressi nella loro terra, dalla bruta forza di un esercito occupante, che in nome dell’Unificazione del Regno d’Italia, li umiliava e li calpestava, trattandoli non da eguali, ma da inferiori, da schiavizzare e da sottomettere a tutti i costi.
Ora la domanda che mi pongo è questa: “chi e per quale ragione, spinse tanti uomini e donne a ribellarsi ed a divenire briganti”? Certamente, vi fu qualcuno di essi, convinto idealista, quale il sergente Romano, che credeva realmente alla legittimità del Regno di Francesco II e volle aspramente combattere perché venisse nuovamente insediato sul Trono. Ma per gli altri, la maggior parte, fu la violenza cieca della misera, le angherie subite e lo stato di necessità a spingerli ad intraprendere quella vita delittuosa che li portò a sicura morte.
Il Brigantaggio Meridionale, fu come diciamo oggi, una vera lotta di classe, perché nasce dalla lotta continua e perpetua che perdura da secoli sino i nostri giorni, tra la povera gente (la gleba) ed i proprietari terrieri, che si accordano con i vincitori, cioè i Piemontesi, per far sì che il popolo subisse la povertà, mentre a loro andassero i privilegi e che la ricchezza da loro mantenuta continuasse a rimanere tale sino alla completa sottomissione dei miseri.
Il brigantaggio nasce anche come reazione istintiva e primitiva ad una situazione di sfruttamento medievale. E’ contro i padroni, è in difesa dei cafoni, dei diseredati e degli ultimi, ma non propone però nessun progetto di rinnovamento, né economico né politico, salvo a propagandare l’immediato ritorno sul Trono del Sovrano Borbonico Francesco II, di cui, verso cui peraltro cresceva nello stesso tempo la sfiducia degli stessi capi del movimento brigantesco.
la morte e le gesta del brigante Carmine Crocco
detto “ Donatello “
che è stato un Brigante, tra i più noti e rappresentativi del periodo Risorgimentale.
Nacque a Rionero in Vulture, paese all’epoca che faceva parte del Regno delle Due Sicilie e che contava circa 10.000 abitanti.
Secondo un manoscritto di Gennaro Fortunato, zio del meridionaliste Giustino, il soprannome Donatello apparteneva a suo nonno paterno, Donato Crocco. Suo padre Francesco era pastore presso la nobile famiglia venosina di don Nicola Santangelo, mentre sua madre, Maria Gerarda Santomuro, era una massaia che coltivava un piccolo campo a Rionero. Secondogenito di cinque figli (tre fratelli: Donato, Antonio e Marco; una sorella , Rosina), visse un’infanzia piuttosto tranquilla, sebbene le condizioni familiari fossero misere e si lavorasse solo per poter vivere. Crebbe con i racconti di suo zio Martino, un ex sergente maggiore di artiglieria che perse la gamba sinistra a causa di una palla di cannone nell’assedio di Saragozza (durante la Guerra d’indipendenza spagnola) e da cui imparò a leggere e scrivere. Ancora bambino, nell’anno del 1836, assistette ad un episodio che segnò per sempre la sua vita iniziando a maturare il suo istinto ribelle contro i potenti. Ora, avvenne che nel corso di una mattinata di aprile di quell’anno, entrò in casa un cane levriero che aggredì un coniglio, trascinandolo con sé fuori e lo dilaniò. Suo fratello Donato uccise il cane con un randello.
Per sua sfortuna, l’animale apparteneva ad un signorotto del posto, un tale don Vincenzo, che, trovando la bestia morta vicino alla dimora dei Crocco, picchiò violentemente Donato con un frustino. La madre, incinta di cinque mesi, si frappose tra il signorotto e suo figlio, subendo dall’aggressore un violento calcio al ventre che la costrinse ad una lunga degenza a letto e, per poter rimanere in vita, fu costretta ad abortire. Pochi giorni dopo il signorotto si presentò dal giudice ed accusò il padre, il quale, venuto a conoscenza dell’accaduto, avrebbe tentato di ucciderlo a fucilate. Di conseguenza, i poliziotti si recarono a Venosa e portarono Francesco al carcere di Potenza. Solo dopo due anni e mezzo, si apprese che non fu suo padre a compiere il tentato omicidio, ma un anziano del posto, il quale rivelò, in punto di morte, di essere stato lui l’autore del gesto criminoso. La madre, ancora mortificata per la perdita di un figlio non ancora nato, cadde in profonda depressione per l’incarcerazione del marito, divenne pazza e venne rinchiusa in manicomio. Per poter mandare avanti la famiglia, furono venduti i miseri possedimenti ed i figli furono affidati ad altri parenti. Tali eventi molto tristi e difficili, resero Crocco sempre più ostile nei confronti della società in cui viveva.
Con il padre in carcere e la madre con seri problemi di salute, il giovane Crocco, assieme al fratello Donato, andò a lavorare come pastore in Puglia: sporadicamente tornava nel suo paese natio ma sua madre, sempre più logorata da problemi psichici, non lo riconobbe più e morì poco tempo dopo nel manicomio ove era rinchiusa.
Nel 1845, ancora quindicenne, salvò la vita ad un nobile della zona, don Giovanni Aquilecchia di Atella,, che volle attraversare imprudentemente le acque dell’Ofanto in piena. Come compenso, Aquilecchia regalò 50 ducati a Crocco, che li sfruttò per poter ritornare nella sua Rionero dopo il soggiorno lavorativo in Puglia, e permise anche la scarcerazione di suo padre, tramite suo cognato Don Pietro Ginistrelli, un uomo importate ed influente.
Tornato a casa suo padre era divenuto vecchio e malato, Crocco dovette assumersi il ruolo di mantenere la famiglia, iniziando a lavorare come contadino presso la masseria di Don Biagio Lovaglio a Rionero ed un mattino del maggio 1847, conobbe don Ferdinando, il figlio di don Vincenzo, colui che assalì suo fratello e sua madre. Don Ferdinando apparve diverso dal suo genitore e si mostrò gentile nei suoi confronti, rimanendo sconfortato per il male che il padre aveva arrecato alla sua famiglia.
Offrì al giovane Crocco il posto di fattore in una masseria di sua proprietà ma lui preferì avere in affitto tre tomoli di terra con i quali sperava di guadagnare 200 scudi che gli avrebbero permesso di evitare il servizio militare (sotto il Regno delle Due Sicilie la leva era riscattabile dietro pagamento di una somma alle casse statali).
Don Ferdinando promise che avrebbe contribuito al raggiungimento della cifra necessaria al momento della chiamata alla leva, ma l’accordo si vanificò, poiché il signorotto unitosi ai rivoluzionari napoletani venne trucidato da alcuni soldati svizzeri a Napoli il 15 maggio 1948.
Così Crocco, si ritrovò arruolato nell’esercito di Ferdinando II, nel primo reggimento d’artiglieria, prima nella guarnigione di Palermo (inviato per reprimere la rivoluzione separatista siciliana) e poi di Gaeta con il grado di caporale. L’esperienza militare non fu duratura, poiché Crocco disertò dopo aver ucciso un commilitone. Con la sua partenza, fu la sorella Rosina, non ancora diciottenne, ad avere il compito di mantenere la famiglia. Intanto Rosina, rimasta in casa a lavorare per tante ore al giorno, ricevette continue proposte di un uomo invaghito di lei, un certo don Peppino Carli. Ma la ragazza, completamente disinteressata, gli mostrò sempre indifferenza e lui, non sopportando i suoi continui rifiuti, andò in giro a diffamarla; infine costui avrebbe incaricato una mezzana perché la rendesse più avvicinabile. Rosina scioccata sfregiò con il rasoio il viso della mezzana e fuggì dai parenti per invocare protezione ed aiuto. Crocco seppe dell’accaduto e, furibondo, volle riparare l’offesa subita dalla sorella.
Conoscendo le abitudini di don Peppino, che generalmente frequentava un circolo per giocare d’azzardo nelle ore serali, attese il ritorno del signorotto davanti la sua abitazione. Al suo arrivo, gli domandò il perché del suo gesto nei confronti della sorella, dandogli del “mascalzone”. Don Peppino non tollerò l’aggettivo attribuitogli e gli diede un colpo di frustino in viso. Colto dall’ira, Crocco estrasse il coltello e lo uccise. Compiuto l’assassino, fu costretto alla fuga e ad abbandonare il servizio militare, trovando rifugio nel bosco di Forenza, posto in cui era facile trovare, membro del comitato insurrezionale lucano, avrebbe fatto concedere la grazia ai soldati disertori che avessero appoggiato la campagna militare di Giuseppe Garibaldi contro i Borboni (Spedizione dei Mille), per poter conseguire l’unità d’Italia. Crocco, nella speranza di un’amnistia per i suoi reati, aderì ai moti liberali del 1860 unendosi agli insorti lucani, seguendo Garibaldi fino al suo ingresso a Napoli e partecipando ai diversi conflitti garibaldini, tra cui la celebre battaglia del Volturno. Tornato vittorioso, si recò a Potenza dal governatore Giacinto Albini, il quale assicurò che l’amnistia sarebbe stata acconsentita.
In realtà, le cose andarono in direzione opposta; Crocco non ricevette la grazia e fu arrestato. La sua condanna fu aggravata a causa del sequestro di Michele Anastasia, capitano della Guardia Civica di Ripacandita, compiuto con l’aiuto di Mastronardi e avvenuto prima dei moti risorgimentali di agosto. Crocco tentò la fuga verso Corfù ma venne sorpreso a Cerignola e nuovamente arrestato.
Grazie all’aiuto della famiglia Fortunato (parenti del meridionalista Giustino) Crocco riuscì ancora ad evadere e a rifugiarsi nei boschi del Vulture, formando una piccola banda di grassatori. Deluso della promessa non mantenuta, fu avvicinato da membri di comitati filo borbonici che gli diedero l’opportunità di riscattarsi, di diventare il capo dell’insurrezione legittimista contro lo stato Italiano appena unificato, offrendogli un solido aiuto di uomini, di soldi e di armi. Crocco decise così di passare alla causa di Francesco II, ultimo re della Due Sicilie che subentrò al padre Ferdinando II dopo la sua morte.
Nel frattempo il popolo lucano, afflitto dalla miseria e dagli aumenti dei prezzi sui beni di prima necessità, iniziò a rivoltarsi contro l’appena costituito Stato Italiano, poiché con il cambiamento politico non ottenne alcun beneficio, mentre la classe borghese (in passato fedele ai Borbone) conservò intatti i propri privilegi dopo aver appoggiato, opportunisticamente, la causa risorgimentale.
Così, Crocco, sostenuto dal clero locale e da potenti famiglie come i Fortunato, sfruttò il profondo malessere sociale del popolo lucano, riuscendo ad assumere il comando di oltre duemila uomini, di cui la maggior parte erano persone nullatenenti e disilluse dal nuovo governo italiano, oltre che da ex militari del regno borbonico. Al comando di 43 bande, ciascuna affidata ad un sergente coadiuvato da due caporali, egli, partì all’attacco sotto il vessillo del Borbone.
Crocco, nel periodo di Pasqua del 1861, conquistò la zona del Vulture nel giro di dieci giorni. In ogni territorio conquistato, dichiarava decaduta l’autorità sabauda ed ordinava che fossero esposti nuovamente gli stemmi ed i fregi di Francesco II; ogni zona occupata veniva assegnata ad un suo luogotenente.
Gli assedi dell’armata di Crocco furono sanguinari e disumani; persone appartenenti, soprattutto, alla classe borghese e liberale venivano ricattate, rapite o barbaramente uccise da Crocco in persona o dai suoi uomini. In gran parte dei casi, però, venivano accolti positivamente e supportati dal ceto popolare. Lo stesso governatore della Basilicata, Giacomo Racioppi, dopo l’invasione del comune di Trivigno, affermò: “la plebe si aggiunge ai predoni, mentre la colta cittadinanza o fugge, o si nasconde, o muore con le armi in pugno”.
Il 7 aprile occupò Lagopesole (rendendo il castello una roccaforte) e il giorno successivo Ripacandida, dove sconfisse la guarnigione locale della Guardia Nazionale Italiana. Il 10 aprile i briganti entrarono a Venosa e la saccheggiarono, istituendo anche qui una giunta provvisoria. Durante l’occupazione di Venosa, morì, per mano dei briganti, Francesco Nitti, medico ex carbonaro, nonché nonno dello statista Francesco Saverio, e la sua abitazione saccheggiata. Poi fu la volta di Lavello ed infine di Melfi (15 aprile), dove Crocco fu accolto trionfalmente.
Con l’arrivo di rinforzi piemontesi da Potenza, Bari e Foggia, Crocco fu costretto ad abbandonare Melfi e, con i suoi fedeli, si spostò verso l’Avellinese, occupando, qualche giorno dopo, Monteverde, Aquilonia (a quel tempo chiamata Carbonara), Calitri, Conza e Sant’Angelo dei Lombardi. Il suo arrivo in Irpinia diede uno scossone a diverse popolazioni locali: comuni come Trevico e Vallata insorsero contro i piemontesi e sotto la sua influenza si formarono altre bande nella zona comandate da un suo luogotenente, il brigante Ciriaco Cerrone.
L’avanzata di Crocco riuscì anche a valicare i confini pugliesi, grazie anche all’appoggio del suo subalterno Giuseppe “Sparviero” Schiavone di Sant’Agata di Puglia, occupando la stessa Sant’Agata, Bovino e Terra di Bari. Nell’agosto 1861, decise improvvisamente di sciogliere le proprie bande, intenzionato a trattare con il nuovo governo. Il barone piemontese Giulio De Rolland, nominato nuovo governatore della Basilicata al posto del dimissionario Giacomo Racioppi, era disposto a trattare con lui ed informò il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re a Napoli, riguardo alle trattative di resa del brigante.
Questi però, incaricò di dire che “saranno ricompensati quelli che renderanno servigi, ma non accordo grazia piena a nessuno è questo un attributo del Sovrano”.
Crocco tornò sui suoi passi quando il governo borbonico in esilio gli promise rinforzi. Il 22 ottobre 1861, arrivò per ordine del generale borbonico Tommaso Clary, il generale catalano Josè Borjes. Quest’ultimo, da poco giunto dalla Calabria con una manciata di uomini, venne a conoscenza, tramite Clary, delle vittoriose gesta di Crocco e organizzò un incontro con lui nel bosco di Lagopesole. Il generale aveva fiducia nelle capacità del brigante rionerese e vide in lui un valido aiuto per tentare un’insurrezione contro i piemontesi, comunicandogli, inoltre, la promessa del governo in esilio riguardo ad un immediato rinforzo di soldati.
Borjes voleva trasformare la sua banda in un esercito regolare, quindi adottando disciplina e precise tattiche militari, inoltre programmò di assoggettare i centri minori, dar loro nuovi ordinamenti di governo e arruolare nuove reclute per poter conquistare Potenza, ancora un solido presidio sabaudo. Crocco gli diede retta, sebbene, sin dall’inizio, non nutrisse alcuna simpatia per il generale; temeva che Borjes volesse sottrargli il comando dei propri territori. Nel frattempo giunse da Potenza un nuovo rinforzo, il francese Augustin De Langlais che si presentò come agente legittimista al servizio dei Borboni. De Langlais, personaggio ambiguo di cui Borjes ebbe a dire nel suo diario “si spaccia come generale e agisce come un imbecille”, partecipò a numerose scorrerie accanto al brigante.
Partito da Lagopesole, assieme alle sue bande e con Borjes, Crocco raggiunse le sponde del Basento, ove riuscì a reclutare nuovi combattenti, e occupò Trivigno, mettendo subito in fuga le guardie nazionali. Caddero sotto la sua occupazione altri centri come Calciano, Salandra, Aliano.
Il 10 novembre, ottenne una vittoria su un gruppo di bersaglieri e guardie nazionali durante la battaglia di Acinello, uno dei più importanti conflitti del brigantaggio postunitario. Conquistati altri centri come Grassano, Guardia Perticara, San Chirico Raparo e Vaglio, l’esercito di Crocco giunse nelle vicinanze di Potenza nella giornata del 16 novembre ma, per divergenze diplomatiche con Borjes, la spedizione verso il capoluogo non venne portata a termine e l’armata dei briganti si riversò verso Pietragalla.
Nella giornata del 22 novembre i briganti giunsero a Bella e conquistarono Ruvo del Monte, Balvano, Ricigliano e Pescopagano. Poi con l’arrivo dell’ennesimo rinforzo piemontese, Crocco esaurì le risorse e non potendo sostenere altre battaglie, ordinò ai suoi uomini la ritirata verso i boschi di Monticchio. Lì, Crocco decise di rompere i rapporti con il generale Borjes, perché era incerto di vincere e non credeva più alla promessa del governo borbonico di ottenere un contingente maggiore di uomini e mezzi. A questo punto il generale Catalano, sconcertato dal suo cambio di rotta, si recò a Roma con i suoi uomini per fare rapporto al re, ma durante il viaggio, Borjes fu catturato da alcuni regi soldati capeggiati dal maggiore Enrico Franchini e venne fucilato assieme ai suoi fedeli a Tagliagozzo.
Crocco rimase con De Langlais, il quale sparì dalla scena poco dopo. Con la fuoriuscita dei legittimisti stranieri, iniziarono le sue prime difficoltà, poiché alcuni suoi uomini iniziarono ad agire contro i suoi ordini Da quel momento, il brigante rionerese, rimasto senza un sostegno militare ed economico, minacciò ricchi signori di morte e di bruciare le loro proprietà se non l’avessero supportato finanziariamente, arrivando a compiere depredazioni, ricatti e sequestri di personalità importanti delle zone, al fine di estorcere migliaia di ducati. Le scorrerie di Crocco arrivarono fino alle zone di Foggia, Bari, Lecce, Ginosa e Castellaneta e si ritrovò a collaborare in diverse occasioni con il brigante pugliese Sergente Romano. Nel febbraio del 1862, i due briganti giunsero con i loro uomini nei dintorni di Andria e Corato, uccidendo dei militi della Guardia Nazionale e depredando alcune masserie. Dinanzi all’apparente invincibilità degli uomini di Crocco, intervennero in aiuto della coalizione regia anche soldati della Legione Ungherese, che diedero filo da torcere al capobrigante e le sue bande.
Nel 1863, il generale Fontana, i capitani Borgognini e Corona organizzarono trattative di resa con i briganti, Crocco, Caruso, Coppa e Ninco Nanco si presentarono di propria volontà, furono ospitati in una casa di campagna nelle vicinanze di Rionero. Durante il banchetto, Crocco promise di condurre tutti i suoi uomini alla resa e se ne andò. In realtà il capobrigante non fece più ritorno e l’accordo saltò. Nel marzo del 1863 le sue bande (tra cui quelle di Ninco Nanco, Caruso, Caporal Teodoro Sacchetiello e Malacarne), attaccarono un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Bianchi, e circa una ventina di loro furono picchiati ed uccisi.
Nel frattempo il generale Franzini, che si occupò di combattere il brigantaggio nel Melfese, fu sostituito, per motivi di salute, dal generale Emilio Pallavicini, proveniente dal comando della zona militare di Spinazzola (Pallavicini, militare di lunga carriera, era già noto per aver bloccato Garibaldi sull’Aspromonte mentre tentava di raggiungere lo Stato Pontificio). In quello stesso momento Caruso, fino a quel momento uno dei migliori luogotenenti di Crocco, entrò in attrito con il suo capo e si allontanò dalla banda andando ad arrendersi al generale Fontana il 14 settembre 1863 a Rionero, preparando così la sua ritorsione nei confronti di Crocco e dei suoi ex alleati. Affidato al generale Pallavicini, svelò alle autorità i piani e i nascondigli della sua organizzazione e, per via delle sue informazioni, numerosi briganti trovarono la morte ed il loro esercitò si indebolì progressivamente.
Con il rinnegamento di Caruso, Crocco fu costretto a nascondersi nei boschi a causa dei massicci rinforzi alla Guardia Nazionale inviati dal governo regio, Nei giorni successivi tutti i paesi insorti e occupati furono riconquistati, stabilendo l’autorità sabauda. Crocco, ormai rimasto solo con pochi seguaci e accerchiato dai cavalleggeri di Lucca e Monferrato, fu costretto a dividere la sua banda in piccoli gruppi posti in luoghi strategici, tra i quali i boschi di Venosa e Ripacandida
L’esercito di Pallavicini lo sorprese sull’Ofanto, ove le sue truppe vennero decimate il 25 luglio 1864. Davanti ad una sconfitta ormai inevitabile, Crocco, auspicandosi un aiuto da parte del clero, giunse nello Stato Pontificio il 25 agosto 1864 per incontrare il papa Pio IX, il quale aveva sostenuto la causa legittimista. In realtà il brigante fu catturato dai soldati del papa a Veroli, per poi essere incarcerato a Roma. Tutto ciò, suscitò in lui un’amara delusione nei confronti del pontefice e, oltre all’arresto, gli venne confiscata una ingente somma di denaro che aveva portato con se nello stato Papale.
Nel frattempo, molti uomini sotto il suo comando come Caporal Teodoro, Donato “Tortora” Fortuna, Vincenzo “Totaro” Di Gianni e Michele “Il Guercio” Volonnino furono giustiziati o costretti ad arrendersi, sferrando un duro colpo al brigantaggio nel Vulture-Melfese. Il 25 aprile 1867, Crocco fu tradotto a Civitavecchia e, imbarcato su un vapore delle Messaggerie Imperiali Francesi, venne destinato a Marsiglia per poi essere esiliato ad Algeri. Giunto nei pressi di Genova, il governo italiano, intercettò l’imbarcazione e si sentì autorizzato a farlo arrestare ma Napoleone III ne reclamò il rilascio, sostenendo che non si aveva diritto d’arresto su una nave di altro Stato.
Crocco fu improvvisamente rispedito nella zona pontificia a Paliano, poi portato a Caserta, Avellino ed infine a Potenza. La sua fama era tale che, durante i suoi passaggi da una prigione all’altra, numerose persone accorrevano per poterlo vedere di persona. Dopo il processo tenuto presso la Corte di Assise di Potenza, il brigante venne condannato a morte l’11 settembre 1872 ma la pena fu poi commutata nei lavori forzati a vita in circostanze oscure, poiché altri briganti con capi d’imputazione simili furono giustiziati. Dopo la sentenza, il brigante venne prima assegnato al bagno penale di Santo Stefano poi nel carcere di Portoferraio, in provincia di Livorno, ove passò il resto della sua vita fino al 18 giugno 1905, data della sua morte.
Nella sua vita privata, egli ebbe una relazione d’amore duraturo con la brigantessa Filomena Pennacchio, poi si legò inizialmente ad una donna chiamata Olimpia. In seguito, quando divenne comandante di un proprio esercito di rivoluzionari, ebbe una relazione con Maria Giovanna Tito, conosciuta quando la brigantessa si aggregò alla sua banda. Da allora lo seguì fedelmente, rompendo la relazione di Crocco con Olimpia, la quale instaurò in seguito un rapporto di convivenza con Luigi Alonzi detto “Chiavone” brigante della provincia di Frosinone. La Tito poi fu abbandonata dal capobrigante, che si era invaghito della vivandiera della banda di Agostino Sacchitello, luogotenente di Crocco di Sant’Agata di Puglia. Nonostante la fine della loro relazione, Maria Giovanna continuò ad operare sotto le dipendenze di Crocco, fino al 1864, quando fu arrestata.
Dalla sua autobiografia, elaborata con l’ausilio di Eugenio Massa, un capitano del regio esercito, si evince quanto qui di seguito riporto per una migliore interpretazione e conoscenza della vita e dell’essere di Carmine Crocco, che le sfortunate ed inique vicissitudini della sua epoca, lo resero prima rivoluzionario e brigante ed in seguito, grazie alle sue acquisite attitudini al comando, viene ancora oggi ricordato, come il Generale dei Briganti.
Nacque nel 1830, come già detto, a Rionero in Vulture, in una capanna di foglie e fango alla periferia del paese, a stretto contatto con pecore e galline, in un lembo di terra attaccato al piccolo podere paterno, capace di produrre un poco di legumi e verdure per il nutrimento della famiglia numerosa, cinque figli più i genitori.
L’immagine della famiglia, rimane un punto fermo nella memoria di Carmine Crocco: soprattutto il dramma della madre incinta, finita in manicomio per i calci selvaggi subiti da un signorotto locale, indignato per l’uccisione, forse involontaria, del suo cane levriero provocato dal fratello di Crocco.
Ma i guai giudiziari della famiglia, non finirono lì, infatti successivamente, il padre sarà ingiustamente accusato di aver proditoriamente, colpito a fucilate, in aperta campagna, il signorotto responsabile della violenza alla moglie. In realtà si era trattato, di un tentato omicidio perpetrato da altra persona, che pensava di vendicarsi dell’arrogante “galantuomo”, per aver questi disonorato una onesta fanciulla del posto.
Quel dramma familiare, con il padre in carcere e la madre in manicomio, non abbandonerà mai la mente del comandante Carmine Crocco, anzi gli alimenterà la ferocia e la forza di combattere contro qualsiasi forma di oppressione. E quel pensiero fisso ed il conseguente agire di Crocco, era il modo, per sentirsi vicino a tutti quelli, che erano tanti, condividevano la medesima sorte di emarginazione e di miseria, di soprusi padronali e di angherie personali.
Egli era molto attaccato alla religione cattolica, pur vivendola sotto forma di fede cieca e di superstizione che non gli impediva di portare sempre addosso ninnoli o oggetti sacri, immagini di Santi, venerati, quali presenze benefiche e cariche di buoni auspici per il futuro.
Certo la religione era anche quella cattolica del sovrano borbonico, di Francesco II, che vantava l’appoggio della Chiesa Ufficiale, nella sua alta gerarchia e non voleva assolutamente accettare la vendita pubblica dei beni ecclesiastici voluta dal nuovo Stato Unitario.
Non lo attirava molto, nemmeno il richiamo alla politica. Sapeva bene che a combattere erano sempre, gli stessi da una parte e dall’altra, figli della terra, contadini e pastori, al comando di ufficiali ben pagati e reazionari, in parte, se in possesso di denaro, di chiedere ed ottenere l’esonero dal servizio militare, nel quale, peraltro, la pratica della violenza era assai diffusa e si esercitava sulle inesperte e malcapitate reclute. Infatti, uno dei primi delitti di Crocco, è stato commesso proprio in ambiente militare, al tempo della sua prima chiamata sotto le armi nell’esercito borbonico.
In lui, vi era sempre il ricordo di Rionero, delle sue serate trascorse in una vecchia masseria per ascoltare gli anziani del paese, veterani di tante guerre, tornati dal fronte zoppi o guerci, insegnanti di quella scuola di vita e di disciplina militare. Il rispetto della legge ne era il centro, come pure l’obbedienza ai superiori, anche se questi cambiavano spesso di colore politico, rivolgendosi al popolo con la stessa arroganza. La società è fatta di gente furba e di bravi cittadini, di gente onesta e di corrotti, ed alla fine sono questi ultimi ad avere la meglio perché si impongono con la forza e con l’arroganza. Guai a farsi agnelli è solito ripetere Crocco, perché a farti pecora ti aggredisce il lupo. La violenza si esercita su tutti, sulle cose e sulle persone. Le donne sono spesso le vittime designate. Chi non le rispetta per quello che sono e rappresentano, una parte vitale della società, perché lavorano ed aiutano, allora vada a zappare la terra con l’aratro, scrive il capo dei briganti, assetati di tutto, di ricchezze e di piaceri proibiti, talvolta in ossequio ad un principio di disprezzo del prossimo, che neppure i comandanti più morigerati riuscivano a calmare. Lo stupro di massa ha molto spesso accompagnato le azioni militari dei briganti, e non sempre si è trattato di sole donne borghesi, talvolta in grado di fuggire per tempo, ma anche le figlie del popolo, di contadine o meno benestanti o di mogli stuprate alla presenza dei mariti, come avveniva nei conflitti etnici di più recente e tragica memoria. Le dichiarazioni di Crocco, su questo punto appaiono sfumate e reticenti.
In sede di interrogatorio al processo penale, presso la Corte di Potenza nel 1872, Crocco, alla domanda sulla violenza alle donne risponde con la metafora del beccafico, cioè di un uccello in libertà che becca dove gli pare e piace.
Il racconto delle sue gesta, occupa gran parte dell’autobiografia, ne è come lo sfondo nel quale sfilano personaggi, amici e collaboratori, bersaglieri e cavalleggeri di Saluzzo, elogiati per l’amore della disciplina e del disprezzo del pericolo, che spesso mancava ai briganti, non addestrati militarmente ed in possesso di armi superate ed impari alle necessità della lotta.
Pur essendo di numero inferiore, la banda di Crocco al massimo del suo fulgore, tra uomini e cavalli, non ha mai superato le duemila unità, dimostra una conoscenza assai profonda delle asperità dei luoghi, inaccessibili alle armate settentrionali, con grotte naturali e nascoste, talvolta con uscite segrete. Non sempre la disciplina dei capi è seguita fino al millesimo, come nel caso di Ninco Nanco, senza escludere il tradimento perpetrato, proprio dal luogotenente Caruso ai danni della banda di Crocco.
Si sa poi, per le rivelazioni fatte, che il “pentito” Caruso avrà salva la vita e la possibilità di lavorare, sotto forma di premio che le Autorità Militari, d’intesa con quelle civili, avevano pensato di stabilire nei confronti dei briganti che avessero deciso di parlare.
Quindi si può dire che la legge sui pentiti, esisteva già allora.
Quanto ai saccheggi dei paesi, le immagini che risaltano agli occhi sono quelle di una violenza che non conosce confini, che penetra negli angoli più riposti della casa e dei palazzi per ammazzare donne e uomini, bruciare vecchi, e martirizzare bambini. Ma non fu di meno la ferocia dell’esercito piemontese, con le ordinanze del generale Cialdini, disposto a mettere a soqquadro, incendiando e devastando, interi paesi alla semplice, e talvolta non verificata, notizia sulla presenza di briganti in loco.
Il processo presso la Corte di Potenza, nell’estate del 1872, al termine delle peripezie di Carmine Crocco, illuso a più riprese dagli ambienti borbonici, francesi e dello Stato Pontificio, su una eventuale liberazione, mediante la fuga in Algeria, ha reso possibile una unificazione dei reati d’accusa, omicidi e grassazioni, per un numero assai elevato; ma, comunque, ancora inferiore a quello di altri, come Caruso, il “pentito” che aveva potuto beneficiare dei condoni giudiziari, pur avendo commesso quasi il doppio dei reati attribuiti allo stesso Crocco.
Ma l’episodio, che egli, ama ricordare con passione e che richiama spesso alla sua mente è quello del suo ingresso trionfale a Melfi nel 1861. Quando già famoso per i suoi trascorsi di combattente al seguito di Garibaldi, poi spinto a passare nel campo avverso come “comandante francescano”, perché agli ordini del re borbonico Francesco II, Crocco, dopo le prime vittoriose gesta di capo brigante, entra trionfalmente a Melfi. Ad attenderlo sono le Autorità del paese, i ricchi signori, i padroni delle terre, il Capitolo religioso al gran completo, che lo salutano alle porte del paese per rendergli gli onori, riverirlo, mentre in paese si diffonde un’aria di festa, con i balconi pieni di fiori e coperti di arazzi, mentre il cielo era allietato dal crepitio dei mortaretti.
Eppure, egli, il Crocco, era lì per fare razzia di bestiame e di denari, per sostenere e confortare i propri uomini desiderosi come egli dice, di tutti i piaceri.
Con questi ricordi, credo, che Carmine Crocco, esalò il suo ultimo respiro nel tetro e orrendo Carcere di Portoferraio (Livorno) .
Qui, finisce la storia, sinistra, inquietante e leggendaria della vita di Carmine Crocco, tuttora al centro di pareri discordanti, tra chi, nella storiografia dell’ottocento e degli inizi del novecento, lo considerava principalmente un ladro ed un assassino, e chi invece a partire della seconda metà del 900, particolarmente gli autori della tesi revisionista, vide nella sua figura un eroe popolare,.
Così delle sue memorie, scriveva il famoso giornalista Indro Montanelli: “si tratta di un componimento viziato dall’enfasi e dalle reticenze, ma non privo di spunti descrittivamente
efficaci sulla vita dei briganti, e abbastanza sincero”.
la storia dei briganti continua
Brindisi, febbraio 2016.
Antonio TRONO