E' la grazia di Dio che vive nei cuori di queste persone che non si lasciano intimorire dal tempo e dalla pioggia. In ottantacinque hanno partecipato al pellegrinaggio di questo mese.
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(Sospendiamo la trascrizione del diario di Giuseppina Cassano, moglie di Teodoro D'Amici, e proponiamo questa testimonianza, per essere in linea con il foglio "Il Ventisette" del Santuario di
Jaddico, dove è stato pubblicato il brano sotto riportato.)
Son caduto a Jaddico, da una cinquina di metri.
Domenica, 22 gennaio 2006.
Questa mattina sono andato a trovare Uccio Arigliano nella piccola cappella che sta nelle campagne che portano a Cerano.
Appena entrato ricevo i saluti di Uccio che è in compagnia di una coppia di coniugi di una rispettabile età. Mi fa accoglienza, poi si rivolge al suo amico Mario e gli dice: “Sai chi è questa persona?”
Ho fatto di tutto per dirgli di lasciare stare, che non era necessario, ho tentato in tutti i modi, ma non c’è stato verso.
E ancora Uccio: ”É il figlio di Teodoro”.
A questo punto, visto che sono stato messo allo scoperto, dico: “Si, sono il figlio di Teodoro, il vigile urbano”.
“A, Ghiatoru, Ghiatoru di Jaddico. Io ho costruito la Chiesa di Jaddico”, dice Mario senza prendere fiato.
Mi rendo subito conto che Mario ha iniziato a parlare e nessuno più lo può fermare.
Ed intanto Uccio, rivolgendosi a me: “Quando ero piccolo avevo paura di papà tuo. Lo vedevo a Porta Mesagne, sulla pedana di legno e mi sembrava un generale.”
Mario intanto incalza e dice: “Io lavoravo per conto della ditta Ido Fabbris di Mesagne, una ditta piccola, che aveva preso a Jaddico il lavoro della costruzione della Chiesa.”
Poiché ho acceso il registratore, mi domanda: “Ma devo parlare in italiano?”
“No”, gli ho risposto io, “parlami in dialetto, così iu ti capiscu megghiu.”
“Quando siamo arrivati a Jaddico, dice Mario, abbiamo fatto un po’ di pulizia, perché era tuttu pienu ti scrasci e man mano che pulivamo di la uscivano li scursuni. Ma li scursuni, frati mia, stava tuttu chinu chinu, perché stava anche l’acqua del canale, e nui li pigghiavammu a caci. Nu saccu di scursuni.
Ho rinzaffato con il cemento quel mezzo arco che è sul muro per evitare che tutte quelle pietre sparpagliate che sono li, potessero muoversi. Ho anche bloccato il tufo che è ancora più sopra. Sta fermato. Non si muove quello là.”
Quando gli ho chiesto delle fondazioni, dopo un breve sforzo di memoria, mi ha risposto che erano state iniziate, intorno all’anno ‘62/’63.
“Bravissimo, gli ho risposto, ti ricordi bene, questo vuol dire che quello che ancora mi dirai, sarà accompagnato da buona memoria.”
“Questo è quello che ricordo io, continua Mario.
Ghiatoru era severo, si stizzava quando le cose non andavano come diceva lui ma, ci lu sapivi pigghiari, era ‘na pasta di cristianu.
Poi è arrivato il tempo dei finestroni e Teodoro mi disse che erano un po' bassi. C'era bisogno di più aria, di più luce.
Non ti preoccupare, gli ho detto io, li facciamo più alti.
Finalmente siamo arrivati all’altezza in cui dovevamo mettere l’arco ai finestroni.
Quel giorno era sabato, continua Mario.”
Questa precisazione, che richiedeva una memoria di oltre quarant'anni, in un lampo mi ha fatto riflettere ed ho quasi iniziato a dubitare del racconto! Mi sono invece dovuto ricredere, quando continuando, dice:
“Ho chiesto agli altri chi voleva venire a lavorare con me il giorno dopo, per iniziare a sistemare i finestroni, ma nessuno è voluto venire a lavorare, perchè cadeva di domenica e così sono andato da solo.
Ho sistemato i murali per reggere l’impalcatura che stavo approntando sotto il finestrone e poi il ponte sopra, cioè il tavolone. In quel tempo non avevamo le impalcature che si usano adesso. Era una ditta povera.
Nna fundata, era buenu iertu, perché era chiù cupu prima, perché poi lì è stato riempito, ed il piano di calpestio è stato sollevato, l’impalcatura poteva essere alta una cinquina di metri.
Fuori del perimetro della chiesa, c’erano quanto un camion di tufi in carparo ed a fianco, un po’ più in là, una uguale quantità di tufi normali.
Con una sagoma già pronta, ho segnato il tufo in carparo e quindi il bordo, e poi pian piano, con la mannara e la grattuggia, l’ho lavorato. Ho preparato la conza e l’ho portata sopra il tavolone, sopra l'unico tavolone che avevo già sistemato.
Ho preso il tufo così sagomato, l’ho messo sulle spalle e son salito. Poteva pesare 45/50 chili scarsetti.
Dopo essere salito sul ponte e, quindi raggiunto il punto centrale, si scatta lu tavoloni, cade giù la conza che esplode da tutte le parti e cado giù anche io, con an cueddu lu tufu.
Mi trovo ssittatu an terra. Non mi faccio niente, nemmeno una graffiatura! Questo potrebbe anche essere una cosa normale noto però che il tufo, che avevo sulle spalle, non c’è più.
Lu carpuru, lu carpuru, lu carpuru? Mi dico. Ma il tufo non c’è più. Lo dovevo trovare per terra. Niente, lu carpuru non esisteva.
Quel tufo lo trasportavo e lo tenevo su una spalla, mi avrebbe dovuto sfracellare, invece non c’era più. Non lo trovo ne intero, ne rotto, ne frantumato.
Ma stavo proprio bene. Mi alzo senza dolori, perché poi, ho ripreso dopo pochi minuti a lavorare. Sono andato alla massa dove c’erano i carpari, ho sagomato un altro tufo e sono risalito e con me un altro secchio di conza. Questa volta di tavoloni ne ho utilizzati due.
Solo dopo un paio di giorni ho avuto un lieve dolore sulla spalla.”
Questa storia appartiene a Mario Abitino di Brindisi, il quale concludendo mi dice: “Questo io l’ho considerato un miracolo e per questo ancora ringrazio la Madonna di Jaddico.”
tonino